Il disegno politico di Mosè

Durante la conquista della Palestina e subito dopo ac­caddero cose strane, che apparentemente sfuggono ad una spiegazione logica. Cominciamo dalla distruzione di Geri­co, Ai e delle altrecittà, grandi e piccole, della Palestina. Mosè aveva stabilito (Dt. 20,16), e Giosuè puntualmente eseguito, che le popolazioni di queste città fossero sterminate completamente, fino all'ultimo neonato.

Non era una prassi normale; nemmeno in quei tempi feroci. La norma era di uccidere, sì, gli uomini d'arme; ma tutti gli altri, servi, donne e bambini, venivano risparmiati e fatti schiavi. Così, infatti, si comportò Giacobbe, quan­do distrusse Sichem (Gn. 34,29). Così fecero, in un primo momento, gli stessi Ebrei quando distrussero i Madianiti; così dispose lo stesso Mosè per le guerre contro città poste al di fuori della Palestina (Dt. 20,13). Uccidere donne e bambini era un assurdo scempio, oltre che un'inutile cru­deltà. Mosè doveva avere i suoi buoni motivi per lasciare una simile disposizione.

Un secondo fatto che ha veramente dell'incredibile, tanto è al di fuori della norma storica, è l'assetto politico dato da Giosuè al popolo ebreo, una volta terminata la conquista. Ci si aspetterebbe che a questo punto si faccia nominare re; che fondi una capitale, crei una burocrazia, un esercito permanente e un forte stato centralizzato; che costruisca un tempio a Jahweh, questa volta in solida pie­tra; che si costruisca una tomba degna di questo nome. In­somma che realizzi quelle manifestazioni e quelle strutture tipiche di un grande regno. Perché in effetti il territorio conquistato era degno di ospitare un regno veramente grande; dopotutto era appartenuto a ben trentun re!

Invece no. Lui, Giosuè, proprio nel momento del trionfo, "liquida" la nazione ebrea. Spartisce il territorio in tante piccole parti, con confini ben delimitati, e assegna una parte a ciascuna tribù, insediandovela libera e sovrana. Scioglie l'esercito. Disperde i Leviti, la classe dirigente del popolo ebreo, suddividendoli in piccoli gruppi presso le al­tre dodici tribù. Si ritira come un privato qualsiasi a Tim­na-Serach (Gs. 19,30), la città che si è assegnato, per nulla più grande o più importante delle altre. Né lui, né Eleaza­ro nominano dei successori, i nuovi capi supremi. Alla loro morte nessuno rivendica quel posto.

Con loro termina, per il momento, la storia della na­zione ebraica, iniziata con Mosè. Comincia la storia di tante tribù, legate fra loro soltanto dalla coscienza della comune origine e religione, ma autonome e sovrane nel proprio territorio. Insomma, Giosuè deliberatamente smantella ogni struttura politica centralizzata, e sistema le cose in modo tale che non possa in alcun modo risorgere. Un fatto forse unico, nella storia, davvero sorprendente.

E’ fuori dubbio che Giosuè non fece altro che eseguire un piano molto accurato preparato dallo stesso Mosè. Re­sta da capire il perché di questo piano, apparentemente as­surdo e masochistico. Un'analisi accurata della situazione politica dell'epoca mette ancora una volta in evidenza lo straordinario genio di Mosè, che seppe conciliare con que­sta soluzione le più disparate esigenze.

Non va dimenticato che al momento della conquista la Palestina era ancora a tutti gli effetti una "provincia" egizia e il popolo d'Israele era da due secoli una compo­nente dell'impero. Non è neppure pensabile che Mosè in­tendesse muovere guerra all'Egitto per strappargli una par­te di territorio, o che volesse affrancare il popolo ebreo dalla sudditanza all'impero. Quello cui poteva aspirare era recuperare gli antichi territori palestinesi in cui erano vissuti i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, ma sempre nell'ambito e sotto l'autorità dell'impero egizio.

Contemporaneamente, però, voleva assicurare alla propria famiglia la supremazia sull'intero Israele; ma dove­va anche assicurare a ogni singola tribù prosperità e com­pleta autonomia, e un compenso adeguato a tutti coloro che lo avevano aiutato nei suoi disegni e gli erano stati lea­li; e doveva assicurare alle tribù la sicurezza delle conqui­ste e salvaguardare l'identità del popolo ebreo e l'integrità della sua dottrina; doveva anche ricompensare in modo speciale la tribù di Levi per i servizi resi, evitando, però, che potesse riprendere la supremazia sulle altre tribù e da­re ombra alla propria famiglia.

Come si vede, un complesso di esigenze contrastanti, inserite in una cornice, l'impero egizio, che sembrava non lasciare spazio ad alcuna aspirazione territoriale. La cosa che a prima vista appare più pazzesca, infatti, è come egli potesse sperare di impadronirsi di una provincia dell'impe­ro con un esercito di appena seimila uomini armati alla leggera. Un'impresa apparentemente impossibile, ma in realtà ben calcolata: per quanto piccolo, l'esercito di Giosuè era di gran lunga il più potente e meglio organizzato dell'inte­ra Palestina.

Essendo da secoli parte integrante dell'impero, nessu­na delle città palestinesi disponeva di un forte esercito pro­fessionale. Ogni città era autonoma, non inquadrata in grandi unità territoriali, e disponeva soltanto di una picco­la guarnigione che doveva provvedere alla difesa locale nei confronti di banditi e sollevazioni popolari. La difesa della regione, infatti, era assicurata dall'esercito imperiale, il cui nerbo era costituito da truppe egizie, affiancate da contin­genti forniti dalle singole città, ma al comando di ufficiali egizi.

Mosè, però, sapeva per antica esperienza che alla morte del faraone l'autorità dell'impero in Palestina sareb­be stata praticamente assente per parecchi mesi; con un poco di fortuna anche per anni. Durante le esequie del sovrano, infatti, i funzionari di alto grado venivano richia­mati al centro e ogni attività politica rimaneva paralizzata in tutto il territorio dell'impero. Tradizionalmente durante questo periodo scoppiavano disordini e rivolte, senza che nessuno, da parte egizia,  intervenisse.

Con la temporanea eclissi dell'autorità imperiale che sempre seguiva la morte del faraone, Israele si sarebbe tro­vato di fronte soltanto truppe locali, disorganizzate e gui­date da ufficiali di grado non elevato; avrebbe avuto quin­di facile gioco nell'affrontare separatamente le singole città e distruggerle. Le città non direttamente minacciate, non disponendo di truppe idonee e ritenendo, giustamente, che non fosse compito loro mantenere l'ordine nell'impero, si sarebbero ben guardate dall'intervenire.

Il nuovo faraone, non appena in grado di occuparsi delle faccende dell'impero, sarebbe stato ammansito con il pagamento di un fortissimo tributo e con le più ampie e sviscerate assicurazioni di fedeltà e sottomissione.

Perché questo progetto potesse realizzarsi era necessario che la conquista fosse fulminea e che le popolazioni presenti nei territori conquistati fossero completamente sterminate. Da un lato per procurarsi le ricchezze con cui calmare successivamente il sovrano (e corrompere generali e funzionari), dall'altro per evitare che torme di profughi provocassero disordini a catena nel resto del Paese e che postulanti a corte inducessero il sovrano a intervenire per ristabilire l'ordine precedente. Trovandosi invece di fronte al fatto compiuto, senza nessuno che protestava e con il suo bel tornaconto, il neofaraone non avrebbe mosso un dito.

I calcoli di Mosè risultarono corretti e Giosuè poté conquistare praticamente incontrastato il territorio di quelli che la Bibbia chiama trentun «re», ma che in realtà do­vevano essere trentuno città e grossi villaggi, sparsi nella regione montagnosa e quindi scarsamente fortificati e non in grado di resistere ad una forza d'urto compatta e ben addestrata.

Vedremo più avanti, in altra sezione, che le cose sono andate pressappoco in questo modo, ma con una variante sostanziale. Abbiamo visto in Il faraone della conquista, che in realtà gli ebrei invasero sì la Palestina alla morte della regina Tauseret, ultima sovrana della XIX dinastia, ma non approfittando di condizioni di anarchia locale, bensì agli ordini dell’usurpatore Sethnakht, fondatore della XX dinastia, che strinse un patto di alleanza con gli israeliti, invitandoli a invadere la Palestina per costringere le truppe mercenarie palestinesi, operanti in Egitto agli ordini dei lealisti, a un precipitoso ritorno in patria, per difendere le loro città minacciate, che furono in ogni caso distrutte o soggiogate.

L’ordine di sterminio delle popolazioni delle città distrutte era partito direttamente da Sethnakht, e comunque ha riguardato soltanto un numero limitato di città, come risulta dallo stesso racconto del libro di Giosuè.

In ogni caso era da evitare con cura la creazione di uno stato unitario, con un esercito permanente: Sethnakht  non poteva­ permettere che il suo vassallo israelita diventasse troppo potente. L'esercito, pertanto, fu sciolto e le singole tribù furono separate, ricevendo ognuna una porzione di territorio in cui erano del tutto autonome le une dalle altre, ma soggette comunque all’autorità del nuovo faraone.

Mosè voleva assicurare la supremazia sull'intero po­polo ebreo e il benessere perpetuo della propria famiglia mediante un flusso adeguato e co­stante di tributi, senza tuttavia dare la minima ombra al­l'autorità politica egizia, né limitare l'autonomia delle sin­gole tribù. Il problema fu risolto brillantemente con la fondazione del tempio di Silo, sul modello dei templi egizi, che erano soggetti all'autorità politica, ma godevano di am­pia autonomia economica, di privilegi e rendite e supplivano al potere politico in periodi di decadenza di que­st'ultimo.

Alla propria famiglia Mosè fece assegnare in proprietà perpetua la città di Silo con il relativo tempio e assicurò la prerogativa esclusiva del sacerdozio, escludendone i Leviti[1]. Questi ultimi furono dispersi capillarmente fra le re­stanti dodici tribù. Un gesto di ingratitudine verso gli arte­fici primi della sua grandezza? Niente affatto: Mosè tolse loro soltanto la tentazione di combinare guai (uniti prima o poi avrebbero brigato per ristabilire la propria supremazia sull'intero popolo, insidiando il primato alla fa­miglia di Mosè), ma non il benessere, né il prestigio perso­nale. Ciascun Levita ebbe proporzionalmente una proprietà molto superiore a quella degli altri Ebrei.

Giosuè, dopo la spartizione, si ritirò a vita privata, nella città che si era riservata come feudo personale. Non si sentirà mai più parlare di lui, né di suoi discendenti; probabilmente non aveva neppure una famiglia. In ogni ca­so non poteva aspirare a qualcosa di più: era figlio di un certo Nun, non altrimenti noto, quasi certamente un servo appartenente alla tribù di Efraim (Nm. 13,8). Doveva essere entrato nel gruppo dei fedelissimi di Mosè fin dai primi momenti, in Egitto; probabilmente era suo amico d'infan­zia o di giovinezza (Nm. 11,28). Era intelligente e capace, ma soprattutto fidato, al punto che Mosè lo incaricò dell'e­secuzione della parte più importante dei propri piani, che doveva svolgersi dopo la propria morte.

Anche i parenti madianiti di Mosè ebbero la loro par­te. Mosè aveva previsto tutto. Certamente l'unica cosa che non aveva previsto fu che la religione da lui fondata avreb­be avuto un tale successo universale da conquistare il mon­do intero.


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[1] Quella dei Leviti votati al sacerdozio è una leggenda che ad un'analisi accurata non trova serio fondamento nella Bibbia. Essa si basa principalmente sulle genealogie sacerdotali compilate dopo l'esilio babilonese e riportate in 1 Cronache che risultano confuse e contraddittorie.
I primi sacerdoti (consacrati da Mosè, è importante ricordare) furono Aronne ed Eleazaro; tutti gli altri Leviti furono da Mosè votati al servizio del tempio-tenda con vari incarichi, ma non al sacerdozio. Dopo la conquista della Palestina i Leviti furono dispersi in quarantotto città, con intorno pascoli ade­guati; nessuna di queste città era dotata di un santuario, né riceveva tributi o offerte di qualsiasi genere. Non risulta che alcun Levita, neppure il primogenito di Eleazaro, Fineas, abbiano esercitato in qualche modo il sacerdozio.
Il tempio-tenda scomparve senza lasciare traccia e fu rimpiazzato dal santua­rio di Silo (città non Levita), dato in proprietà alla famiglia di Mosè. Tutti i sacerdoti che si incontrano fino all'avvento di Davide appartenevano alla casata di Silo. Tutti i sacerdoti successivi discendevano da Achimelek e Zadok, entrambi figli di Achi­tub, nipote di Eli, ultimo titolare del santuario di Silo. E’ evidente che il sacerdozio era legato esclusivamente alla famiglia di Eli e quindi ai discendenti di Mosè.
In 1 Cronache 24 e altrove viene esplicitamente dichiarato che i sacerdoti appartengono esclusivamente alle famiglie di Zadok e Achimelek, ma i due ven­gono fatti erroneamente discendere da Eleazaro e Itamar.  Davide riammette i Leviti al servizio del tempio, ma non al sacerdozio, che competeva appunto alle famiglie di Zadok e Achimelek. Nella Bibbia, infatti, sacerdoti e Leviti vengono sempre nettamente distinti fra loro, a dimostrazione del fatto che le due condizioni non si identificavano (v. per esempio: I Cr. 23,2; 1 Cr. 16,4 seg.; 1 Cr. 12,27; 1 Cr. 27,17; 2 Cr. 11,13; 2 Cr. 13,9-10, eccetera).