Ricognizione esplorativa in Palestina

Partito dal monte Sinai (Har Karkom), nel ventesimo giorno del secondo mese del secondo anno, Israele si diresse verso Cadesh, e più precisamente ad Ein Kudeirat (Ritma), senza subire attacchi o contrasti da parte di popolazioni ostili. Ciò significa che il territorio compreso fra queste due località era in mano agli Ebrei; probabilmente, quindi, era appartenuto alla tribù di Amalechiti che erano stati sconfitti e sterminati a Refidim. Ein Kudeirat doveva trovarsi al confine settentrionale di tale territorio ed è naturale che gli Ebrei si siano accampati proprio lì, per preparare l'invasione della Palestina.

Per prima cosa Mosè dovette mandare esploratori a perlustrare la zona e valutare le difese nemiche; operazione necessaria per elaborare un piano di attacco. «Salite di qui al Negev, attraverso la zona montagnosa» (Nm. 13,17), ordinò Mosè; Giosuè e altri undici esploratori dovettero percorrere la pista più diretta, che passa per Beer Hafir e Beer Resisim, si spinsero fino a Ebron e poi fecero ritorno al campo che nel frattempo non si era mosso da Ein Kudeirat.

La Bibbia dice che stettero via «quaranta» giorni, una cifra chiaramente indefinita (Nm. 13,25). In realtà gli esploratori dovettero star via il tempo strettamente necessario per rendersi conto della situazione militare dell'area da invadere. Ebron si trova a cinque-sei giorni di cammino da Ein Kudeirat; calcolando un paio di giorni persi in ricognizioni varie, Giosuè dovette star via tra i dodici e i quindici giorni, non di più. Era intorno alla metà di settembre, nel periodo della vendemmia: e infatti, quando tornò a Cades, Giosuè portò con sé uva e altra frutta di stagione (Nm. 13,23).

Il primo tentativo di conquista della Palestina

Pochi giorni dopo, contro la volontà di Mosè, gli israeliti effettuarono un primo tentativo di invasione della Palestina, dirigendosi a nord verso il deserto del Negev, ma furono respinti con pesanti perdite da Amalechiti e Cananei (Nm. 14, 42-45); Deut. 1, 41-45), popolazioni certamente fedeli al faraone. Una buona notizia per Merenptah, che si trovava allora alle prese con un’invasione di libici [1]. E’ la vittoria delle armi egiziane cui fa riferimento la stele di Israele, avvenuta nella prima metà di ottobre del 1207 a.C., nel quarto mese del quinto anno di regno di Merenptah. Alla fine di quello stesso anno veniva incisa la stele commemorativa

La premessa di quella battaglia, non programmata da Mosè, che quasi quasi fece naufragare i suoi progetti, sta nei fatti che si svolsero a Cades nel settembre del 1207 a. C.

Nella preparazione di Mosè c'era una grossa lacuna: non aveva alcuna esperienza di cose militari. Forse aveva sottovalutato il problema; forse pensava di sopperire alla mancanza di armi e di esperienza con il numero, l'entusiasmo e le sue risorse mentali. Dopotutto aveva annientato l'esercito del faraone.

Di ritorno dal giro di ricognizione, Giosuè e gli altri esploratori fecero un rapporto disastroso sulle condizioni militari della Palestina. Il popolo, a sentire parlare di poderosi eserciti con carri da guerra, di soldati giganteschi e di fortezze inespugnabili (Nm. 13, 33; Deut. 1, 28), si rivoltò immediatamente: «Ognuno diceva al proprio fratello: "Diamoci un capo e torniamo in Egitto" [...] Tutta la comunità disse di lapidarli» (Nm. 14,4-10).

Mosè riuscì a controllare la situazione, adottando misure drastiche. Con l’eccezione di Giosuè e Caleb, della tribù di Giuda, tutti gli altri esploratori, che avevano fatto un rapporto disfattista, furono subito messi a morte (Nm. 14, 37). Quanto al popolo, Jahweh, su tutte le furie per la mancanza di fede, voleva sterminarlo seduta stante: «Fino a quando questo popolo mi disprezzerà? Io lo colpirò con la peste e lo distruggerò» (Nm. 14, 11).

Ma poi, grazie ai buoni uffici di Mosè, commutò la pena in una più lieve: nessuno di quella generazione di rammolliti senza fede avrebbe visto la Palestina; avrebbero vagato nel deserto, finché non fossero morti tutti; con le debite eccezioni, naturalmente:

«Io perdono come tu hai chiesto, ma tutti quegli uomini che hanno visto la mia gloria e i prodigi compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno obbedito alla mia voce, certo non vedranno il paese che io ho giurato di dare ai loro padri. Nessuno di quelli che mi hanno disprezzato lo vedrà; ma il mio servo Caleb (...) io lo introdurrò nel paese dove è andato» (Nm. 14, 11-38).

La sconfitta di Israele

I rimbrotti e le rimostranze di Mosè sortirono l'effetto voluto. Anzi, più di quanto fosse nelle sue intenzioni, tanto che la situazione rischiò di sfuggirgli di mano e per poco non successe un disastro irreparabile. Infiammato dalle sue parole, disperato, un folto gruppo di teste calde, deciso a lavare l'onta di quella resa anzitempo, partì per proprio conto alla conquista della Palestina, lungo la stessa via percorsa da Giosuè, fra i monti. Non fecero molta strada: furono attaccati dagli abitanti del luogo, nei pressi di Beer Resisim, e si dettero a precipitosa fuga, inseguiti fino a Orma (Ein Mor) e al monte Seir (Nm. 14,45; ; Deut. 1, 44). I superstiti tornarono al campo, a Cades, con la coda fra le gambe. Sconfitto, avvilito, decimato, il popolo ebreo mise momen-taneamente da parte ogni velleità di conquista e si rassegnò penosamente a vivere ancora a lungo nel deserto.

Il colpo di testa di quegli sciagurati aveva messo gli Ebrei in una situazione davvero critica. Era un popolo numeroso, per lo standard del deserto, ma alla prova delle armi aveva fornito una prestazione disonorevole, fuggendo vergognosamente. Le perdite, forse, non erano state catastrofiche, anche se ovviamente, com’è nella norma storica, i vincitori ampliarono alquanto la portata della loro vittoria (2). In ogni caso, lo scontro aveva messo a nudo tutta la debolezza del popolo ebreo, vissuto per generazioni sotto l'om-brello protettivo egizio e non avvezzo alle armi.

Mosè avverti immediatamente l'estrema pericolosità della situazione. I vicini vincitori, ringalluzziti dal successo, avrebbero senza dubbio cercato di liberarsi dall'ingombrante presenza di quel popolo estraneo, che rivendicava il possesso del territorio, facendo fra l'altro un bottino stre-pitoso. Erano una preda troppo facile e ghiotta: dovevano andarsene immediatamente di lì; l'indomani stesso (Nm. 14,25; ; Deut. 1, 40). Detto fatto, Mosè imballò il tempio-tenda e partì (3). E’ questo un dato che passa solitamente inosservato, anche perché la narrazione biblica a questo proposito è piuttosto confusa e carente; ma è fondamentale per la comprensione dei fatti. La logica e i dati del racconto, specialmente quelli relativi alle tappe dell’itinerario (Num.33), vogliono che Israele sia "fuggito" subito dopo la sconfitta. Ma per andare dove?

I “quaranta” anni di peregrinazione nel deserto

Era il quinto mese del secondo anno dall'inizio dell'Esodo, in ottobre, quando Israele fu sconfitto a Orma, nei pressi di Cades. Tornarono in zona ad Ein Cadeis, (la Sorgente di Cades), (Nm. 33, 36) , soltanto il primo mese dell'ultimo anno di permanenza nel deserto(Nm. 20,1) . Fra queste due tappe dell'itinerario di Numeri 33 trascorrono circa 22 anni , indicati dalla Bibbia col solito numero indefinito «quaranta», durante i quali Israele sostò in ben diciotto località diverse.

Di questo lungo periodo e degli spostamenti che lo caratterizzarono la Bibbia non dice quasi nulla. Oltre all'elenco di tappe di Numeri 33,17-36, gli unici versetti riferibili ad esso sono quelli di Deuteronomio 2,1-8, che descrivono il percorso e i fatti immediatamente successivi alla partenza da Ritma. Poi più nulla.

Le indicazioni fornite dal]a Bibbia sono purtuttavia sufficienti per capire cosa è accaduto in quegli anni e per ricostruire con buona attendibilità l'itinerario. Delle diciotto località citate in Numeri 33 soltanto tre sono individuate con certezza, perché ancor oggi conservano lo stesso identico nome; nell'ordine Yotvata, Avrona ed Ezion Gever, che si trovano lungo la pista che conduce a quel ramo del Mar Rosso noto attualmente come golfo di Aqaba. A Ezion Gever, posto sul mare, fa capo anche il Darb el-Aza.

Sappiamo quindi con certezza che Israele, dopo la disfatta, si diresse a sud in direzione del golfo di Aqaba. Per stabilire dove si recarono esattamente bisogna innanzitutto stabilire il perché vi si recarono. Appena uscito dall'Egitto, Israele si era impadronito di un territorio amalechita che andava da Har Karkom fino ad Ein Kudeirat. Era un popolo di trentamila persone con migliaia di capi di bestiame. Essendo la zona desertica, con risorse alimentari limitate, avevano necessità assoluta di sparpagliare il bestiame su un area molto vasta, frazionando anche gli uomini in piccoli gruppi, distaccati ciascuno a difesa di una parte del bestiame. Donne, vecchi e bambini, invece, rimanevano concentrati in pochi grandi accampamenti ai piedi del monte, difesi dai rimanenti maschi adulti.

Così sparpagliato, il popolo ebreo era estremamente vulnerabile nei confronti di attacchi di sorpresa e aveva perciò assoluta necessità di un territorio sicuro; ma dopo la sconfitta subita proprio ad opera di Amalechiti (evidentemente una tribù più settentrionale, o superstiti della prima) e Cananei coalizzati (Nm. 14,43), Israele rimaneva esposto agli attacchi dei vicini, resi arditi dalla facile vittoria (4).

In queste condizioni non poteva in nessun modo continuare a dimorare nel territorio strappato ad Amalek. I territori circostanti, però, erano ovviamente tutti occupati da popolazioni che avrebbero resistito con le armi a ogni tentativo di penetrazione; tutti meno uno. Mosè, durante il suo esilio nel Sinai, aveva sposato una Madianita, Zippora, figlia del capo-tribù Ietro (Es. 2,21), ed era vissuto per lunghi anni in mezzo a loro. I suoi figli, Ghersom ed Eliezer, erano madianiti (Es. 18,3-4); si può dire che Mosè fosse "naturalizzato" madianita.

Suo suocero Ietro venne a fargli visita a Refidim (Es. 18,1-27) ; prima della partenza dal monte Horeb Mosè chiese a suo cognato Obab, Madianita, di fargli da guida nell'invasione della Palestina promettendogli una parte della terra promessa (Nm. 10,29-32). Non c'è dubbio quindi che i Madianiti fossero alleati e amici di Israele; il loro territorio era l'unico dove gli Ebrei potessero rimanere al sicuro da molestie e colpi di mano. Che Israele abbia soggiornato in esso è provato anche dal fatto che alla fine ritroviamo capi israeliti sposati a donne madianite (Nm. 25,14-15).

Il professor Anati, sulla base dei numerosi siti archeologici dell'età del Bronzo esistenti nella zona, ha individuato nella valle Uvda, a sud di Har Karkom, l'epicentro del territorio madianita. Che esso si trovasse a sud di Har Karkom lo si deduce anche dalla Bibbia; infatti arrivava a lambire o includere il monte Horeb (frequentato da Mosè durante l'esilio), a nord del quale cominciava il territorio di Amalek, che includeva Refidim. I Madianiti pertanto dovevano abitare a sud di Har Karkom, in un'area compresa fra il Darb el-Aza e la valle Aravà (fig 15).

La via più diretta per raggiungere la valle Uvda passa per Har Karkom; ma era una via impraticabile per gli Ebrei, che possedevano «carri coperti», trainati da buoi, per il trasporto della tenda dell'adunanza (Nm. 7,3-9); (5). Dovettero fare un lungo giro, prendendo la «via del Mar Rosso» (Dt. 1,40), nella valle Aravà. Rifecero dapprima la strada percorsa poche settimane innanzi, fino a Beerot Loz, a occidente del Maktesh Ramon. Tentarono per giorni e giorni di trovare un passaggio a sud del monte Seir (Dt. 2,1) . Invano. Alla fine si decisero a prendere la pista che, da Beerot Loz, porta al monte Seir, dirigendo per un lungo tratto verso nord (Dt. 2,3), per poi ridiscendere a sud e attraversare il Maktesh Ramon all'altezza di Ein Saaronim.

Furono costretti a chiedere il permesso di transito a una tribù di Edomiti (Esaù), che abitava sul monte e che non fece difficoltà (Dt. 2,5-8) . Giunti a Ein Shivya, nella valle Aravà, seguirono la pista del Mar Rosso fino a Beer Menuha, poi piegarono a occidente, entrando nel territorio madianita. Qui, finalmente al sicuro, si fermarono per leccarsi le ferite.

Restarono sul posto per molti anni ; il tempo sufficiente perché la nuova generazione subentrasse nei posti di comando a quella formatasi in Egitto, che si era dimostrata troppo pavida ed impreparata per intraprendere una guerra di conquista.



(N1) Dalla stele di Israele: “Gran gioia è venuta in Egitto, giubilo esce dalla città di Tomeri; parlano della vittoria che Merenptah ha riportato fra i Libici...“I re sono abbattuti e dicono "Salam.". Nessuno tiene alta la testa fra i Nove Archi; la Libia è devastata; Kheta è pacificata; Canaan è depredata con ogni male; Ascalon è deportata; Geser è conquistata; Ionoam è ridotta come ciò che non esiste; Israele è desolato, non c'è più il suo seme. La Palestina è divenuta vedova per l'Egitto: tutte quante le terre sono pacificate, chi era turbolento è stato legato dal re Merenptah, sia egli dotato di vita come Ra, ogni giorno”. Da E. BRESCIANI, Letteratura e Poesia dell'Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, p. 277
(N2) La Bibbia minimizza, ovviamente, le proporzioni di questa disfatta, anche se non cerca di nasconderla. Fu in ogni caso un grosso fatto d'armi e ad esso certamente si riferisce la stele d'Israele, in cui Merenptah si vanta di aver disperso il seme di Israele. Per qualche misteriosa ragione, tuttavia, nessuno storico o esegeta, che mi risulti, ha mai messo in relazione tra loro questi due fatti.
(N3) Secondo quanto viene riportato in Deuteronomio 1,46, invece, gli Ebrei avrebbero continuato a dimorare a Cades per un certo tempo; quel versetto si riferisce quasi certamente alla seconda sosta, effettuata a Cades Barnea “quaranta” anni dopo, nell'ultimo anno dell'Esodo, e protrattasi per tre-quattro mesi.
(N4) Gli Ebrei vennero attaccati dagli Amalechiti a Refidim (Beer Karkom), che dallo stesso racconto biblico risulta essere posto a una distanza dal monte Horeb (Har Karkom) inferiore a dieci chilometri (impiegheranno, infatti, meno di una giornata a coprire la distanza fra le due località; la distanza effettiva è di sette chilometri); Refidim, pertanto, era in territorio amalechita. Amalek era una tribù idumea; a est e a nord di Amalek c'erano altre tribù idumee. Tutto il territorio a nord di Har Karkom, quindi, risulta occupato da Edom; i Madianiti, pertanto, dovevano trovarsi a sud, e la valle di Uvda doveva essere il cuore del loro territorio. Il monte Horeb era evidentemente al confine fra i due territori.
(N5) Cfr. E. ANATI, Har Karkom. Montagna sacra nel deserto dell'Esodo,, p. 16: “Le antiche piste di accesso a Mar Karkom".


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