L'esilio nel Sinai L'esilio nel Sinai

Come segretario di un personaggio potente, Mosè esercitava presumibilmente una certa influenza, specie in questioni che riguardavano il suo popolo. Doveva quindi essersi creato una solida rete di relazioni, soprattutto fra gli appartenenti alla sua tribù, quella di Levi. Fra i suoi amici più intimi e fidati c’era indubbiamente Aronne, un “elef” poco più vecchio di lui. Intelligente ed ambizioso, ma caratterialmente debole, Aronne subì il fascino di quella personalità fortissima e tenebrosa, tanto da esserne soggiogato.

Quando Mosè si trovò in seri guai per aver ucciso un Egizio, probabilmente si rivolse a lui per aiuto. A quei tempi non dovevano essere rosee le prospettive per un servo fuggiasco, ricercato per omicidio. Forse fu lo stesso Aronne che lo indirizzò da un certo Ietro, un madianita che esercitava la professione di stregone nel deserto del Sinai e che forse aveva qualche debito di riconoscenza con la famiglia. Non è escluso che lo abbia accompagnato lui stesso; comunque promise di raggiungerlo in seguito (Es. 4,14).

Mosè si recò da Ietro e sposò la maggiore delle sue figlie, Zippora, che portò in dote una tenda ed un gregge di capre. Mosè divenne pastore, nel deserto. Nessuno più lo comandava, lo umiliava. Era solo con le sue capre, se stesso ed il suo passato. Lunghissime ore di solitudine totale, senza nulla da fare, tranne che pensare ... pensare ... pensare. E quella mente era un vulcano.

Ietro doveva essere un passabile stregone; da lui Mosè imparò tutti i trucchi del mestiere Es. 4,1-17). Scoperse il tremendo potenziale della magia; il potere che la superstizione e l’occulto esercitano sulla mente degli uomini. Imparò a servirsene.

Possiamo immaginare che Mosè trascorresse la maggior parte delle lunghe ore di solitudine nel deserto, fantasticando e coltivando folli sogni di rivalsa. E se, come abbiamo concluso dianzi, aveva la mentalità di un egizio dell’epoca. Al centro delle sue fantasticherie doveva esserci il pensiero della sua tomba e del suo funerale, che egli forse immaginava ricchi e fastosi come quelli di un faraone. Ma perché un sogno del genere potesse realizzarsi, lui, figlio di genitori ignoti, bandito ricercato per omicidio, avrebbe dovuto diventare capo di un grande popolo; del “suo” popolo, Israele. Erano soltanto fantasticherie, ovviamente, assurde, impossibili. Finché un giorno fatidico gli balenò un’idea straordinaria, che gli fece intravedere la via per realizzare concretamente quei sogni folli.

Fuggendo dall’Egitto, Mosè era passato nei pressi del Mar Rosso. Qui, nella Baia di Suez, gli capitò di osservare un fenomeno incredibile: una lunghissima striscia di sabbia che emergeva dalle acque del mare, unendo le due sponde come un ponte. Forse passò proprio di lì: una via segreta, usata da contrabbandieri e transfughi per evitare i posti di blocco egizi. Durò soltanto poche ore.

Mosè rimase colpito in modo enorme. Interrogò i beduini che erano soliti frequentare quel luogo; tornò sul posto anno dopo anno; pensò, studiò, congetturò, controllò finché non ebbe capito  a fondo la meccanica del fenomeno e fu in grado di prevederne con precisione la frequenza e la durata. Il fenomeno non era sovrannaturale. Data la forma del golfo e la dinamica delle onde e delle maree, all’inizio della baia di Suez, dove il golfo si restringe e il fondale si innalza, si era formata una linea di secche, che andava praticamente da una sponda all’altra.

Le secche si trovavano a circa un paio di metri sotto il pelo dell’acqua. Normalmente rimanevano sommerse. Soltanto quando l’escursione fra l’alta e la bassa marea diventava massima, poche volte l’anno, affioravano, permettendo il passaggio fra le due sponde. E quasi sempre di notte, perciò pochissimi ne conoscevano l’esistenza. Mosè rimuginava nel suo cervello questo fatto, finché non trovò il modo di sfruttarlo. Elaborò un piano di un’audacia incredibile, ma così genialmente semplice e lineare, che … poteva anche riuscire.

Nel frattempo Ramsess II era morto[1] e il bando confronti di Mosè caduto in prescrizione. Aronne si precipitò nel Sinai per annunciargli la lieta novella. Mosè lo mise al corrente delle sue scoperte e fantasticherie; insieme misero a punto i particolari di un piano (Es. 4,27-28). Prepararono la messinscena sulla montagna sacra, intorno a cui gravitava normalmente il suocero  di Mosè, Ietro;[2] tutto il repertorio di trucchi spettacolari e terribili che avrebbe consentito loro di colpire la fantasia degli Ebrei e di soggiogarli.

Studiarono nei dettagli l’organizzazione, le leggi, gli ordinamenti, i mezzi che avrebbero consentito loro di fare delle tribù di Israele un popolo unito e di mantenere saldamente il potere su di esso. Quando si sentirono pronti, tornarono in Egitto.


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[1] Non è verosimile che fosse il grande Ramsess II in persona a persegui­tare Mosè, un semplice servo. Era certamente il suo padrone, quello che lo aveva accolto nella propria casa e a cui doveva appartenere l'Egizio ucciso da Mosè (probabilmente anch'egli al servizio del funzionario). Come si è visto, spesso alla morte del faraone cambiavano anche i funzionari di grado più elevato; quasi cer­tamente veniva sostituito il gran visir con uno nuovo, il quale a sua volta doveva sostituire molti funzionari di grado inferiore. Questo è quanto dovette accadere alla morte di Ramsess II nella città da cui era fuggito Mosè: il locale visir deve essere stato sostituito e venne così a cadere ogni persecuzione nei confronti del­l'esule, che poté ritornare.

[2] “La ricerca dell'ubicazione del monte Sinai costituisce uno dei capitoli più sofferti dell'archeologia e dell'esegesi biblica. Fin dall'epoca bizantina l'at­tenzione fu rivolta all'area del Sinai e in particolare alla cima cui fu dato il nome di Jebel Musa, o Montagna di Mosè, ai piedi della quale l'imperatore Giustinia­no, nel secolo VI d.C., fece costruire il monastero di Santa Caterina. Secondo la concezione bizantina la montagna sacra doveva necessariamente essere la più al­ta, la più vicina al cielo. Tale concezione non corrisponde alla visione semitica. Tuttavia si stabilì così una tradizione che l'esegesi biblica moderna mette in seria discussione” (E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell'Esodo, Jaca Book, Milano 1984, p. 123).
Vari autori moderni hanno proposto altri monti, sia dentro sia fuori della penisola del Sinai (v. fig. 12), ma l'unico che abbia effettuato una lunga serie di campagne archeologiche nel Sinai è il professor Anati, il quale ritiene di aver individuato il sacro monte Horeb in Har Karkom, nell'attuale deserto Paran ( E. Anati,  Har Karkom - La Montagna di Dio, Jaca Book, Milano 1986.